MARCO BALDARI | Silvia Calderoni è nome iconico nel teatro italiano: seppur giovanissima, la sua carriera è già densa di esperienze e di prestigiosi riconoscimenti (tra i molti, il Premio Ubu nel 2009). Da sempre in prima linea nella ricerca e nella sperimentazione ha, nell’arco della sua professione, indagato questioni assai attuali nel dibattito artistico e politico del tempo presente: l’integrazione, il rapporto con l’altro, l’identità e il futuro, le ferite e i conflitti sociali.
In occasione della rappresentazione di MDLSX, al Teatro Stabile di Ostia, abbiamo avuto il piacere di intervistarla.
(Qui la recensione di PAC e un’analisi sul lavoro dei Motus).
Più che un’intervista, una chiacchierata a briglie sciolte su molti dei temi dell’Arte, dell’attualità, sul ruolo del teatro e soprattutto sull’importanza che il corpo ricopre in queste dinamiche.
Discutiamo di come sia urgente ripartire proprio dal nostro corpo: il bisogno improcrastinabile di prendere coscienza e iniziare attivamente a porsi in prima linea, per cercare di frenare il crescente abbrutimento che sta dilagando nel nostro Paese.
MDLSX, I Motus e il teatro: che cammino è stato, che punto rappresenta questo spettacolo nel percorso?
In questo spettacolo per la prima volta firmo la scrittura drammaturgica, anche se comunque la parte dei testi principalmente l’ha gestita Daniela Nicolò. In MDLSX però la drammaturgia non è solo testuale. È tutto veramente legato: per noi ‘drammaturgia’ prende un aspetto più ampio, rappresenta non solo la matrice testuale, ma l’operazione di come il testo si incastra con il video, con la musica e con la partitura fisica.
È per questo che la fermiamo insieme.
Per noi è molto importante sottolineare, mai come adesso, l’importanza di lavorare in équipe, perché non penso che si possa fare tutto da soli o da sole.
È fondamentale soprattutto in questo momento storico.
Il desiderio di continuare a lavorare con l’Altro.
Anche se le compagnie si stanno sfaldando, e sempre di più le locandine tendono a scrivere in grande il nome dell’attore, e in piccolo quello della compagnia, il teatro non si fa da soli.
È quello che mi piace del teatro: il fatto di produrre pensiero tramite il dialogo, produrre idee attraverso una relazione dialogica, non avere un’idea prestabilita che insegui.
Non si insegue l’idea, è il dialogo che produce poi quello che va ad accadere: questa è una linea estetica molto forte di Motus. Si parte da uno spunto e da lì si costruisce una relazione, la quale, poi, produce quello che succederà in scena, e non sappiamo quasi mai dove andremo a finire.
Da un principio che elaboriamo insieme, si arriva alla soluzione.
In questo modo noi rimaniamo vivi e continuiamo a farci sorprendere, perché altrimenti le idee, quelle fisse, stabilite a priori, invecchiano a una velocità mostruosa.
Lo spettatore e la sua funzione. Un cammino fatto insieme?
In tutte le rappresentazioni, ma in quest’opera in particolare, il ruolo dello spettatore è fondamentale. Stiamo parlando di uno spettacolo in cui il confine tra finzione e realtà è molto labile; questo rende chi mi guarda estremamente coinvolto nella recita e ciò aiuta tanto anche me.
Sento questa “tensione” che si crea tra me e la platea. Siamo quasi a 250 repliche di MDLSX e potrei ormai farlo in un modo un po’ meccanico – “mettere in scena il morto” dico – ma non lo faccio, perché nasce come un’esigenza di tenere sempre qualcosa che mi sorprenda internamente, un ritmo nuovo. Deve esserci qualcosa di vivo.
La componente pubblico fa si che io mi emozioni ancora a fare questo lavoro. Non potrei altrimenti.
Probabilmente il giorno che non mi emozionerò più smetterò di fare questo spettacolo.
Chiara Bersani, nel suo discorso di ringraziamento per l’Ubu 2018 come miglior attrice/performer under 35 ha posto attenzione sul tema del corpo come atto politico ( Qui l’approfondimento di PAC). Tu sei da molto attiva su questo fronte…
Ovviamente sono molto in linea con il pensiero di Chiara e anche con la sua esigenza. Chiara si posiziona, con il suo corpo straordinario, in modo molto forte nella scena italiana e non solo. Sottoscrivo in pieno le sue parole.
Ripartire dal corpo e anche posizionare il corpo in un discorso, per me è fondamentale. I discorsi non possono essere astratti, dobbiamo posizionarci con la nostra materialità all’interno dei essi e con la meraviglia della diversità dei corpi di ciascuno.
Questo per me è un atto politico: posizionare i corpi all’interno dei discorsi.
Non si può solamente “fare Accademia” soprattutto quando la materia è viva, quando la materia è incorporata come nel teatro.
Il teatro è materia viva, è strettamente legata al corpo, quindi non si può prescindere da questo.
Io detesto quando qualcuno mi chiede nelle interviste: “Il corpo è il tuo strumento?”. Il corpo non è il mio strumento.
Io sono il mio corpo, è molto diversa questa cosa, e per me è fondamentale chiarirla.
Non è lo strumento che utilizzo, perché io non posso scegliere di non utilizzarlo, così come non si potrebbe chiedere a Chiara di non usare il suo corpo.
Questo è un grande malinteso. Pensare che l’attore utilizzi come strumento il corpo. L’attore, l’attrice utilizza come strumento la scena, la drammaturgia, quello è lo strumento, il dispositivo.
Il corpo invece coincide esattamente con quello che si è, non si può prescindere da questo.
Bisogna ripartire dai nostri corpi, da come sono percepiti, dal loro essere considerati, in maniere distorta, come corpi atipici. Pensare ciò significa pensare che ci sono corpi tipici, oppure ideali.
È proprio contro questo, che va spesa la nostra lotta.
Il mondo teatro, con le sue difficoltà e le prese di coscienza della realtà in cui è inserito. Da un post su Facebook della pagina di Roberto Latini, in cui si annunciava la rinuncia alle sovvenzioni pubbliche per l’anno 2019, leggiamo: «Sputi nel piatto in cui mangi? E in quale dovrei sputare? In quello degli altri…?» (qui il post ). Cosa ne pensi?
La scelta di Roberto è sicuramente meritoria, e che il sistema, così come è stato pensato, non funzioni è sotto gli occhi di tutti, soprattutto dopo la nuova Riforma. Questo vale innanzitutto per un certo tipo di realtà, che possono essere un pochino più piccole e che hanno bisogno di sostegno, come per chi fa lavoro di ricerca.
C’è pero da dire che già molti hanno provato a sollevare il problema. Su tutti ricordo la meravigliosa e assai triste, per come si è conclusa, esperienza dell’occupazione del Teatro Valle. Un vero e proprio esperimento di teatro sociale, di ridistribuzione della cultura partendo dal basso e pensato in modo da coinvolgere il pubblico.
Adesso, al contrario, l’unico occasione per sperimentare è data dai Festival, che però sono rimasti tre.
E non si può neanche pensare che siano i Festival a dover sopperire al problema, al fatto che non c’è più possibilità di fare giro in Italia. Il Festival nasce con un’altra attitudine: quella di portare qualche progetto speciale, far vedere quello che arriva e che sta succedendo nel mondo.
Fare spettacolo in Italia in questo momento è veramente complesso, perché o ti affidi a un teatro, e quindi diventi parte della compagnia dello stabile, oppure lavori dentro una provincia.
Hanno ripreso un vecchio sistema, che voleva essere simile a quello del Teatro Tedesco, che però neanche più in Germania funziona e stanno cercando di smantellare.
Da noi è ancora più grave: il Teatro Italiano è sempre stato teatro di giro, itinerante, nessuno fa replica un mese e mezzo in una città.
In questo tempo, e lo dico senza alcuna polemica, mi sento politicamente di spendere energie per una vertenza che sia più ampia.
Visto quello che sta accadendo in Italia, dove il vento del razzismo, del rifiuto del diverso da noi e lo spettro di orrori che si credevano superati sono ricomparsi, credo che l’impegno di tutti non si debba limitare al proprio piccolo orticello, ma aprirsi il più possibile alle difficoltà di tutti.
Qui la puntata andata in onda su Rai3 di A modo mio dedicata a Silvia Calderoni.