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VolterraTeatro, la città-palcoscenico dell’invisibile

progetto Logos-la ferita festival VolterrraTeatro 2014MATTEO BRIGHENTI | La ferita divide, VolterraTeatro ricuce. I punti di sutura della XXVIII edizione del festival, dal 21 al 27 luglio a Volterra e nei comuni di Pomarance, Castelnuovo Val di Cecina e Montecatini Val di Cecina, sono i luoghi, le pratiche, le persone.

A fine gennaio scorso, per via del violento nubifragio abbattutosi sulla Penisola, a Volterra sono crollate la strada e trenta metri di mura medievali in corrispondenza della Piazzetta dei Fornelli: undici le famiglie evacuate. Uno sperone di roccia pericolante da giorni è venuto giù un mese dopo nei pressi di Piazza Martiri della Libertà.

Da queste ferite del visibile, sociali, collettive, il Festival a cura di Carte Blanche, con la direzione artistica di Armando Punzo, muove per avvicinarsi alle profondità dell’invisibile, alla Ferita personale, privata, ma estremamente feconda per l’artista che riesca a viverla come occasione di scoperta e ricostruzione. VolterraTeatro rimargina il distacco e la perdita di ciò che non è più stringendo forte le relazioni umane, a cominciare dal dentro-fuori tra il Carcere e la Città.

Nell’Istituto di Pena sempre più Istituto di Cultura la Compagnia della Fortezza continua l’attraversamento dell’opera di Genet: Santo Genet è l’anteprima nazionale della compagnia di attori-detenuti guidata da Punzo, che dopo le repliche in carcere (dal 21 al 25) andrà in scena, sabato 26, al Teatro Persio Flacco di Volterra. Numerose, poi, le creazioni originali e i lavori pensati nella logica del site specific di artisti, poeti, musicisti, chiamati a nutrire e impreziosire la riflessione sul tema della Ferita. Tra gli altri, il Teatro delle Ariette con Teatro naturale? Io il couscous e Albert Camus, un lavoro in cui il passato si intreccia al presente dell’atto teatrale in sé che vive sempre e comunque nella dimensione del qui e ora (lunedì 21); I Sacchi di Sabbia presentano i loro Piccoli suicidi in Ottava Rima – Vol. I e Vol. II, il bestseller dei festival estivi (martedì 22); Michela Lucenti e la compagnia Balletto Civile coinvolgeranno un gruppo di giovanissimi in un lavoro dal titolo In-colume/Volterra, che attraverso l’alfabeto della danza si sofferma sulla mancanza, sulla debolezza, sulla ferita appunto, con la partecipazione della violoncellista Julia Kent (mercoledì 23); Mario Perrotta del Teatro dell’Argine presenta Pitùr, secondo movimento del progetto Ligabue che già lo scorso anno ha fatto tappa al Festival con Un bès, per il quale Perrotta ha vinto il Premio UBU come “migliore attore” (giovedì 24).

Dal Carcere VolterraTeatro scorre nella Città, unita per l’occasione in unico palcoscenico. Venerdì 25 luglio un evento di teatro collettivo metterà in scena il gesto concreto del legare oggetti, luoghi e persone: è La Ferita/Logos-Rapsodia per Volterra di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni di Archivio Zeta. La compagnia che ha riportato il soffio della vita nel Cimitero Germanico della Futa si è ispirata a Legarsi alla montagna, opera d’arte del 1981 di Maria Lai che coinvolse Ulassai in Sardegna: all’ora del tramonto moltissimi cittadini, con i quali è già stato avviato da tempo un laboratorio teatrale, riannoderanno tanto i fili della memoria, attraverso momenti performativi, partiture musicali e frammenti testuali, quanto i fili del dolore, con un nastro rosso lungo più di 20 chilometri per i luoghi-simbolo di Volterra. Nel frattempo Carlo Infante, esperto di performing media, condurrà un Walk Show (Urban Experience), una conversazione itinerante, un racconto-passeggiata caratterizzato dall’utilizzo di cuffie e smartphone.

Stringerà, invece, la terra con il cielo il Teatro dei Venti che presenta Simurgh, a Pomarance (il 21), Castelnuovo V.C (il 22), Montecatini V.C (il 23) e domenica 27 luglio, con il gran finale del Festival, in Piazza dei Priori a Volterra. Li abbiamo visti recentemente a Pontedera per Era delle cadute: ingabbiati come l’albatro di Baudelaire catturato dai marinai. Qui, però, saranno nel loro ‘habitat’ naturale: il teatro fuori dal teatro, il grande spettacolo di strada.

L’artista, dunque, riflette sul rapporto tra città e cittadini, sul sé degli altri, ma anche sul proprio, sul ricordo del “dopo”, di quello che rimarrà di lui. Così, martedì 22 luglio il cortile del Carcere ospiterà la presentazione, coordinata dal giornalista Massimo Marino, de L’aria è ottima (quando riesce a passare). Io, attore, fine-pena-mai, l’autobiografia di Aniello Arena, attore simbolo della Compagnia della Fortezza; giovedì 24 verrà annunciato l’inedito Progetto di Archivio della Compagnia (1500 ore di materiali video) all’interno del convegno Artista, comunità e memoria – Dialoghi sulla ferita, a cura di Bianca Tosatti.

La critica, dal canto suo, non si limiterà a osservare e testimoniare il Festival, ma si metterà anch’essa in discussione, rivolterà le terre dentro di sé per seminare nuovo futuro. Perciò, mercoledì 23 luglio, sempre nel cortile del Carcere, ci sarà la cerimonia di consegna del Premio della Critica Teatrale ANCT (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro), mentre nella mattinata di venerdì 25 Rete Critica, il network che da tre anni raccoglie diverse decine di siti e blog che si occupano di teatro e che assegna annualmente il Premio Rete Critica, si riunirà per una sessione di lavoro (anche PAC sarà presente all’incontro).

VolterraTeatro è quindi un Festival espanso, una voglia di fare, esserci, di camminare tutte le strade possibili per rifondare la bellezza. Reali e virtuali. Per tutto il Festival, infatti, Simone Pacini/fattiditeatro, tra i 100 esperti di social media più influenti di Twitter, coordinerà un laboratorio interattivo e itinerante per un racconto teatrale innovativo, un’azione di Social Media Storytelling che connetterà l’esperienza artistica alle eccellenze architettoniche, artistiche ed enogastronomiche della città.

Sketches of a Dying Time: l’umanità alla deriva di Raphael Bianco

allo_spazio_tertulliano_la_compagnia_egri_bianco_danza_tom_waitsVINCENZO SARDELLI | Sketches of a Dying Time. Si chiude nel segno della danza la lunga stagione dello Spazio Tertulliano di Milano. Una nota di leggerezza come codice espressivo. Ponderati, improntati anzi a una riflessione amara, sono invece gli scenari raffigurati dalla compagnia EgriBiancoDanza di Torino. Due coreografie di Raphael Bianco, il cui titolo inglese risuona diversamente sinistro:  “frammenti di un tempo che muore”; oppure “frammenti di un tempo di morte”.

Due balletti di circa mezz’ora l’uno. Una danza che unisce classico e contemporaneo, lontano dagli accademismi. Scena spoglia. Arte totale, che combina fisicità e spazialità, corpo, luce, costumi, colori. Una musica che dà il la alle performance, puntigliosamente scelta per dare consistenza alle idee.

Scenari umani in decadenza caratterizzano la prima coreografia, dal titolo The earth died screaming. Incentrata sulla musica di Tom Waits, la danza evoca uno scenario postumano in cui la lotta per un territorio vivibile si fa feroce. Tutti sono animati da una fregola egoistica di sopravvivere. L’uomo è un animale sociale, diceva Aristotele. Ma diventa spietato fino alla ferocia, quando anela a un posto al sole.

Le musiche stranianti di Tom Waits, segnate da clangori, sono suoni distorti, a metà fra il surreale e il rurale. Animano movimenti gracchianti e deliranti, ritmi caracollanti e vuoti adrenalinici.

La cifra perturbante di questa coreografia disegna scenari in cui l’uomo, dimissionario da se stesso, implode nel proprio disagio, naufraga nella precarietà di un pianeta avviato alla distruzione. Vediamo in scena esseri sghembi e disarticolati, schegge di un’umanità alla deriva. Un po’ scimmie un po’ robot, insetti o avatar, i danzatori sono automi spersonalizzati, ingranaggi senz’anima spinti da pulsioni primarie. La scena è nuda, due clivi, pedane semicurve a tratteggiare una mezzaluna che però non si chiude. In mezzo si crea un vuoto, voragine non solo metaforica in cui i protagonisti riparano o precipitano. I performer, i costumi rossi ridotti a brandelli, occhiali da sole che schermano anche l’anima, si divorano e calpestano. Stramazzano, agonizzano. Curvi, bocconi, striscianti, sono creature sbilenche. Sono gobbi automi alienati, di cui sopravvive solo l’atletismo del corpo.

La seconda coreografia, Nowhere?, è una riflessone sulla migrazione umana. Migrazione reale e spirituale. Nowhere? affronta il cambiamento, le lotte per l’affermazione di nuove idee. L’azione danzata, declinata sulla musica di George Deuter, prefigura stavolta la possibilità di una terra promessa. Questa nuova umanità prevede la rinascita dell’anima, la ricerca di nuovi orizzonti in cui ritornano valori come l’amore e l’amicizia, la solidarietà e il gioco di squadra.

La natura rifiorisce sulla scia dello stile meditativo di Deuter: orizzonti da scrutare, luci più intime, musiche più calde. Ballate meno plumbee, di impianto lievemente più dolce, meno schizofrenico, con un uso più rotondo del corpo e un’impostazione del movimento meno estremizzata.

Questa umanità New Age, pan-etnica, differenziata, marca la personalità di ciascun individuo. Guarda al misticismo. Tende a un’ispirazione spirituale e creativa. Il dolore rimane, ma nasce dalla consapevolezza dei propri limiti, non da insoddisfatte brame egoistiche.

La danza più armonica si accompagna a suoni della natura, versi d’uccello, gorgoglii d’acqua, onde, lussureggianti percussioni arcane.

Atmosfere suggestive, misteriose, inquietanti. E un fortissimo bisogno d’amore, prima ancora che d’autenticità. Con questo messaggio ci lasciano i sette danzatori (Elisa Bertoli, Maela Boltri, Francesca Ossola, Alberto Cissello, Vincenzo Galano, Vincenzo Criniti, Cristian Magurano) guidati da Raphael Bianco, assistito alla regia da Elena Rolla. E rimane la sensazione che, quanto vediamo in scena nella seconda coreografia, sia un po’ la cifra umana della compagnia fondata da Susanna Egri: braccia che si tendono al sostegno reciproco; voglia di rinascere insieme dopo ogni caduta. E un’arte davvero globale, dove suono e movimenti sono perfettamente calibrati.

Carullo Minasi? Ragazzi, non è nulla, bisogna solo imparare a pararsi…

BalakaRENZO FRANCABANDERA | Mettiamo che sei un ruspante contadino dalla bella voce della penisola salentina, e che di colpo una grandiosa popstar fa una canzone che assomiglia maledettamente alla tua. Lavorate per la stessa casa discografica. Ti girano. Correva l’anno 1992, e pare fu il figlio ad avvisare il padre. “Papà, papà, ma senti questa, è ugualissima a I Cigni di Balaka!” Fu così che Al Bano Carrisi decise di accusare di plagio Michael Jackson.

Certo in effetti, devono girare. Mettiamo che sei al lavoro, hai lavorato ad un progetto fantastico sulle angurie quadrate per giorni, hai avuto un’idea geniale, l’hai sviluppata, l’hai portata sul tavolo del tuo collega e amico per discuterne assieme, lui si offre di correggerti il lay out del power point, poi lo vedi entrare nella stanza del boss e uscirne con il capo che gli dà una pacca sulla spalla e a voce alta nel corridoio dice: “Eheh che grande idea ha avuto il nostro: le Angurie Quadrate!! Chi ci avrebbe pensato! Beh ora non dite tutti che ce l’avevate nel cassetto, cari miei. La creatività è intuizione”.

Sarà la sindrome dei cigni di Balaka, quella strana sensazione di quando ti sei fatto un mazzo così e poi di colpo ti sembra che arrivi il contraente forte e si faccia la sua mano. Anzi, si fa il punto con le tue carte, che ti ha preso di mano.

Mettiamo che ad esempio sei stato chiamato a gestire un progetto artistico in condominio. Poi il condomino forte capisce che non si cava un ragno dal buco, sa di avere le spalle coperte, manca una settimana alla presentazione pubblica, si rischia il flop, allora chiama un dirigente dello Stato di Bahnanas, dice: ”Senti, già l’altro giorno te l’avevo detto, guarda che se continuiamo così facciamo un fiasco che ci ridono dietro!”. Il giorno dopo esce il programma tanto atteso della rassegna e il tuo nome è scomparso. Zac!

Chiamiamola sindrome dei Cigni di Balaka, chiamiamola come si vuole, ma diciamo che è solo l’ordinaria bassezza del genere umano che affiora, l’homo homini lupus che il mondo dell’arte fintamente evoca come lontano da sé. Perché in questo mondo ipocrita si è tutti amici, colleghi, fratelli.

Ma de che? E’ uguale preciso all’ufficio della multinazionale sul vialone fra Milano e Monza, o alla Apple dove, come racconta il Corriere, per evitare fughe di idee, i dipendenti verrebbero tenuti separati in uffici lager senza finestre, e i colleghi non possono parlare fra loro di quello che fanno, e manco dirlo alla moglie. E per giunta con stipendi da fame e solo per fare curriculum.

Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi sono due persone che hanno avuto il volo radente dei cigni di Balaka, che nel loro percorso, per quanto hanno raccontato di recente, hanno assaporato il triste dolore della fregatura.

All’istante un’emotività pelosissima si scatena in rete, articoli e solidarietà da compagnie che magari poi vai a vedere non pagano i contributi ai loro dipendenti, lettere sdegnate da amministratori di enti in arretrato di due anni con i borderò, che con i loro mancati pagamenti stanno facendo chiudere altre compagnie ormai con l’acqua alla gola, o magari commenti ai post di gente nota per trattare da schifo i collaboratori, ma che davanti alla colossale ingiustizia dei due ragazzi… Eh, che non gli vuoi mettere un like? Un pollice azzurro sulla foto del massacrato di turno? Non parliamo neanche più del caso specifico a questo punto, sia chiaro, ma del caso-tipo, diciamo così.

Tornando invece al caso specifico, onestamente, vorrei dire agli amici Carullo Minasi che capisco il loro dolore personale, che professionalmente penso di aver subito uguali ingiustizie (nel mio vissuto e con il rispettivo calibro), di ugual portata, confermo loro di aver preso la colite dopo un mese dal mio primo contratto di lavoro, quel mal di pancia intorno ai trenta anni che significa che la pacchia è finita, che non puoi mangiare più l’insalata senza scappare al cesso perché ti hanno fatto saltare i nervi. E solo per colpa di quel tale, o di quell’altro tale. Per quel lavoro, quel progetto, per la troppa vicinanza dei cigni di Balaka.

E che no, non penso che la strada giusta siano analisi apocalittiche sulla sconfitta del mondo del teatro intero, sordo dinnanzi alla crudeltà di queste ingiustizie. Penso solo che a chi lavora capiti. E capiti ancora. E ancora. E che sia illusorio il mondo delle solidarietà social. Penso che le sconfitte, i naufragi, i dolori e i fallimenti, le incazzature siano in fondo un ingrediente del vissuto di ciascuno. Che deve al più temprare, ma mai dissuadere dall’istinto animale di fondo. Questo si, questa è l’unica cosa che mi sento di dire. Carullominasi o non Carullominasi. Napoli o non Napoli.
E occhio ai cigni di Balaka! Si, ma anche agli Aristogatti, a Kodafratelloorso e a tutte le fiabette sul mondo buono che non può tollerare queste ingiustizie, fiabe che servono a mala pena a fare addormentare mia figlia di un anno e mezzo. Che a volte ho il sospetto che manco lei ci crede.
Anche Shakespeare lo sapeva, ed infatti c’è differenza fra il finale de La Bella Addormentata nel Bosco o Cappuccetto Rosso e quello di Otello, Amleto o Romeo e Giulietta. “Where are le buone pratiche”, mi pare infatti dica Amleto prima di morire.

“Che si impara da questa storia?”, chiedeva l’altro giorno il poeta. Nulla, solo che nella vita bisogna imparare a pararsi.

Magari la prossima volta starete più attenti, chiederete di farvi un contratto migliore, avrete imparato a prendere le misure di quel gancio che l’ avversario sa sferrare così bene. Tutto qui. Tranquilli, ci siamo passati tutti. Non è successo niente. Funziona così dappertutto.

State solo attenti ad una cosa: al mondo dell’arte e agli artisti, alla finta community delle solidarietà low cost, che ha il deprecabile difetto di voler far la finta morale, di rappresentare la bassezza come lontana da sé, stigmatizzare ma poi girarsi e pisciare sul muro; ora lo sapete: funziona anche lì allo stesso modo. Anzi.

Quindi occhio ai Mi piace! Schiena dritta, e doveri e diritti scritti per bene la prossima volta. E niente insalata per un po’.

Che alla fine non so neanche se Balaka era il nome di un posto o di un tipo che allevava i cigni. Ma fossi stato Jackson mai avrei copiato da una canzone con un titolo così. E infatti, mi sa che alla fine il tribunale gli diede pure ragione. A Jackson.

Dal cunto al canto immaginando la Sicilia

unnamed-1LAURA NOVELLI | C’è come una richiesta implicita di lasciarsi andare a un tempo sospeso fatto di ritmo e parole. Un bisogno di trasmigrare altrove, tra suoni di un’altra terra, di un’altra epoca, in una miscela proteiforme di note e canti e cunti che muovono dalla Sicilia per riconnetterci a un’età semplice e forse perduta. C’è un invito a godere di un dialetto (a volte oscuro eppure avvolgente) che si fa musica, di una ritualità popolare che è di tuti e per tutti, di un passato storico che è nostro, ed è patrio. E’ facile smarrirsi ogni tanto mentre si assiste a I quattro canti di Palermo di e con Mimmo Cuticchio e Ambrogio Sparagna ma è altrettanto facile ritrovarsi, intercettare una propria traiettoria, riannodare le fila di un impasto originalissimo di forme espressive diverse che, partendo da uno dei volumi della poderosa Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane di Giuseppe Pitrè, costruisce una tessitura di musica, canti, narrazione davvero unica. Un esperimento, dunque. Una prova del fuoco. Coraggiosa. Direi eroica. Soprattutto nella misura in cui risulta eroico, in un’epoca come la nostra, parlare per immagini usando appunto solo la forza del dire, una spada di legno, un pupo dalle fattezze antiche e ritmi musicali dal sapore folkloristico.

La scelta poi di far debuttare uno spettacolo così inconsueto in un palcoscenico storico d’eccezione come Villa Adriana a Tivoli (il lavoro è stato programmato infatti nell’ambito dell’edizione 2014 del Festival Internazionale che Musica per Roma, in sinergia con la Regione Lazio, organizza in questa suggestiva area archeologica ormai da sei anni) non fa che alimentare la voglia di immaginazione e di passato.

Cuticchio entra in scena da solo, senza nulla in mano: è solo voce. Il viaggio inizia così, quasi in sordina, con un cunto sul mercato di Palermo, su un addio, sulla luna, e poi poco a poco lo spazio della rappresentazione si riempie di musicisti (Sparagna e gli strumentisti dell’Orchestra Popolare Italiana dell’Auditorium Parco della Musica, davvero magistrali nelle loro esibizioni d’insieme e solistiche) e della bella voce della cantante siciliana Eleonora Bordonaro. A metà spettacolo poi un’irruzione sorprendente: oltre settanta persone si alzano dalla platea e vanno a formare il Coro Popolare diretto da Anna Rita Colaianni. Sembrano un rivolo composto di energia e vigore. Canto e cunto si intrecciano, si rincorrono, si rassomigliano. Ma è senz’altro Cuticchio l’anima teatrale di una drammaturgia che (sebbene nel complesso un po’ troppo lunga) indugia volentieri sul racconto, sulla spiegazione, sulla rievocazione architettonica o storica. Ovviamente al centro del dire c’è Palermo. O meglio, Piazza Vigliena: un tempo cuore pulsante della vita cittadina e punto di raccordo dei “quattro canti” (sarebbe a dire, i quattro mandamenti) della città che, rievocata anche come “Teatro del Sole”, sembra funzionare qui come una sorta di “quinta” urbana della narrazione.

Ecco dunque la storia dell’avvelenatrice di mariti che morì impiccata, quella di Giufà magistrato, quella di Garibaldi che libera Palermo, quella – compassata e generosa di immagini – del miracolo di Santa Rosalia durante la peste del 1624. Normanni, arabi, greci, Borboni, garibaldini, soldati, santi, popolani, picciotti, marinai, mercanti riempiono le battute del cuntista facendo evaporare dalle pagine di Pitrè – scrittore, antropologo e medico che, vissuto tra il 1841 e il 1916, raccolse e pubblicò un importante corpus di storie, aneddoti, proverbi, tradizioni, leggende, feste, fiabe, indovinelli, scongiuri siciliani cui si ispirarono anche Capuana e Verga, i padri del nostro Verismo – il ritmo salmodiante e incalzante della vita siciliana vera. Quella che non consiste senza fantasia e misticismo. Al resto ci pensano le note, le voci e la canzoni. E uscendo dall’estesa tenuta dell’imperatore Adriano, ormai buia e assai poco visibile, risulta difficile non pensare a come gli innesti culturali – ambito in cui proprio Adriano, grande amante dell’arte e della filosofia greche, ci ha lasciato una sublime testimonianza – siano spesso atti di un coraggio artistico necessario. Tanto più quando consentono di dare spessore contemporaneo al passato.

Il dubbio amletico? Parliamone davanti ad un mazzo di tarocchi

HamletPrivate-2-640x360RENZO FRANCABANDERA | La cifra di Amleto? Quella per antonomasia? Beh diremmo senz’altro il dubbio. Tanto incatenato il personaggio al suo dubitare, da aver regalato al dubbio il più comune degli aggettivi di giustapposizione: amletico.
E cosa fa un uomo quando non riesce a pensare al futuro senza angoscia, senza quel pensiero di incertezza destabilizzante? Cerca la certezza, la predizione, il vaticinio.
Ecco dunque che un’indagine su Amleto non può prescindere dal dubbio, ma anche dal rimedio all’angoscia, legittimando anche, però, quello spazio di fantasia, di immaginazione, di incertezza positiva che questo porta con sé.
Martina Marti, creativa di origine svizzera e finlandese di adozione, è arrivata così a raccontare e ricordare l’Amleto in una dimensione privata, con una performance, recentemente ospitata dal Festival Il Giardino delle Esperidi in una coproduzione fra ScarlattineTeatro – Campsirago Residenza, Gnab Collective in cui Amleto è un dialogo con un/una cartomante.
Giulietta Debernardi e Marco Mazza, in una sessione di lavoro invernale, hanno lavorato con la Marti a dare immagine, figura, forma fotografica (belli molti degli scatti di Erno Raitanen) al dubbio e alla tragedia shakespeariana. Ne è venuto fuori un mazzo di carte, dove invece che l’impiccato, la torre e la papessa, ci sono il dubbio, la nave, l’amico. Insomma un Amleto da tavolo, con lo spettatore, uno per volta, che si siede con il performer che fa partire una clessidra. In realtà due mazzi diversi per ciascun performer, ciascun mazzo che capta la sensibilità dell’attore che ne è protagonista.

E in realtà a quel punto Amleto sparisce, per farsi dialogo fra lo spettatore e il performer, che inizia a leggere le carte. Ma il cuore della lettura in realtà sono i dubbi. Chi non ha avuto dubbi. Chi non ne ha. Chi non ne avrà. E quindi lo spettatore viene ribaltato, che sia partecipe ed espansivo o magari chiuso e schivo, in una dimensione di incertezza in cui la determinante, come per Amleto, non è quello che decidono gli altri ma quello che sei in grado o no di decidere tu di te stesso e della tua vita.Vivrò a lungo, sarò felice, sarò amato, sarò ricco? Chissà. E certo non è un performer a poterlo dire. Ma in realtà se poi ci si pensa, sono le domande che si fanno magari in molti, e a cui non è dato avere risposta. D’altronde, come ne il Truman Show, sapere la risposta vuol dire far perder fascino al gioco della vita. La vita è bella perché è dubbio. Amleto è immortale per questo. Amleto è la vita. E ogni volta che appare, anche solo in una girata di carte attorno al tavolo, dove le parole di Shakespeare affiorano per 2 minuti scarsi, riesce sempre in qualche modo ad esercitare una forma animalesca di fascinazione. E’ questo che la Marti ha avuto l’intuizione di capire, trasformando lo spettatore in un Amleto alle prese con la scrittura della propria drammaturgia, e con un Orazio personale a fargli da guida spirituale fra segni e simboli che in realtà sono familiari prima di tutto al proprio intuito.

E lo spettatore con un gioco intelligente, è costretto a concentrarsi su quelle immagini, su quei simboli, sulla donna in bilico o sull’impronta della scarpa nella neve, sull’ombrello svolazzante o sull’uomo mimetizzato nella boscaglia. E la provvidenza del passero, quelle parole di Shakespeare che raccontano la caducità struggente dell’universo vivente, di colpo si fanno in qualche modo chiari. Finisca come finisca.

Mondocane#25 – Why don’t you all f-f-fade away

exhib_slideshow_exhibition_serious-fun_wilsonMARAT | Oggi sembro Stanley Kowalski. Con ai piedi ciabatte che mai avrei pensato di indossare. Mentre sorseggio un cappuccino. In bilico fra l’opportunità di offrire l’ennesimo contributo alla riflessione sul teatro contemporaneo. O arrancare fino al libanese per un estathè. Ma il problema è che conosco il tizio al tavolino qui a fianco. E lo so che adesso mi parla. “Ho rimesso in piedi il gruppo Marat. Perché la risposta è: hardcore. Cassa dritta e punk, nient’altro. E noi eravamo avanguardia, come gli Atari. Che ora partiamo per la Germania e ho già un mezzo aggancio per incrociare Alec Empire. Lui è uno a posto. Sai che quel primo maggio quando è successo tutto il casino contro il sistema io ero…”. Tu eri. Io ero. Noi eravamo. Qualcuno è ancora. Contro il sistema. Meravigliosa scusa che ci si racconta ad ogni fallimento. Dall’universale all’individuale. Faccio sì sì con la testa. Sposto i ray-ban. E torno a pensare a questa cosa del teatro contemporaneo, che proprio non mi fa dormire la notte. Inseguendo quelli che hanno già offerto il proprio contributo. Quelli del compitino ben fatto. Quelli che la maestra alle elementari non gli ha detto che i punti esclamativi vanno usati con parsimonia. Quelli che inneggiano alla cultura, ora che la nazionale manco è riuscita a vincere un mondiale. E quelli che copiano, confondendo forma e sostanza. Why don’t you all f-f-fade away… Sbadiglio alla Gambardella. Mentre quel che rimane di Alberto, mi sta osservando dall’altra parte del marciapiede. Tua madre ti veste sempre uno schifo, penso. Nodo alla gola. Che Alberto s’è perso e non sa più tornare. Eppure… Eppure eri tu che mi raccontavi di donne e rivoluzioni. Degli artisti e dei cialtroni. Che il tempo è signore, ogni tanto almeno. E che ridere quella volta che mi hai raccontato della finale di basket. È tutto lì.

“Allora Marat: contropiede, mancano tipo tre secondi, sotto di un punto. O victoria o muerte! C’è ‘sto tizio alto 20 cm più di te proprio sotto il canestro avversario. La palla gli arriva che manca un secondo. Lui alza le manone e appoggia. Canestro e vittoria”.
“Alberto, ma questo succede tipo sempre”
“Sì, ma la questione è che non era valido, la sirena aveva già suonato! Ma gli spettatori sono scesi lo stesso a festeggiare e a menare quelli dell’altra squadra. Insomma, il popolo si è preso quello che la vita gli stava negando”.
“Uhm, ma quegl’altri?”
“Hanno fatto ricorso”.
“E?”
“E hanno vinto”
“Alberto, che cazzo mi insegna questa storia?”
“Che si può far tutto. Ma bisogna resistere al tempo. Altrimenti non hai scuse, è solo fuffa. Hai fatto solo un po’ di casino”.

Era delle cadute, questa nuova scena italiana è campata in aria

Lo Sicco/Civilleri  @Nico Lopez Bruchi
Lo Sicco/Civilleri @Nico Lopez Bruchi

MATTEO BRIGHENTI | Un tricolore rammendato scivola da un pennone. Si affloscia e si sgonfia piegandosi su se stesso. Il gruppo di Lo Sicco/Civilleri lo guarda pietrificato. A ogni tentativo di issare quella bandiera si rinnova il fallimento. Non riescono a conquistarle una stabilità all’altezza che inseguono. Ci provano e riprovano, con le unghie e con i denti l’acrobata sale e stringe la stoffa bianco rosso e verde, ma è inutile. Fatica sprecata.

Il penultimo quadro, l’VIII, descrive, involontariamente, il “vorrei ma non posso” Era delle cadute, spettacolo ideato e sostenuto dalla Fondazione Pontedera Teatro e presentato nella grande sala “Thierry Salmon” del Teatro Era, all’interno del Festival Fabbrica Europa 2014. Voleva essere un’opera unica composta dei 7-10 minuti (salvo chi ha lavorato sui collegamenti) preparati, oltre che da Lo Sicco/Civilleri, da giovani realtà come Biancofango, Carrozzeria Orfeo, LeVieDelFool, Macelleria Ettore, Ossadiseppia, Scenica Frammenti, Teatro delle Bambole e Teatro dei Venti. Nella visione del direttore artistico, Roberto Bacci, Era delle cadute rappresentava un progetto addirittura necessario per “imprimere un’impronta artistica da parte di una generazione che è costretta dal mercato e dalla politica culturale a chiudersi soltanto nelle proprie identità per poter sopravvivere.” Alla prova della scena si è rivelato uguale identico a ciò da cui intendeva distaccarsi: una sommatoria di individualità che sono diventate collettivo solo perché hanno condiviso lo stesso palco. Una vetrina, insomma, una rassegna spot promossa da chi come Pontedera Teatro in 40 anni di attività, compiuti proprio quest’anno, non può non essere considerato corresponsabile del “mercato” e della “politica cultura” che Bacci, infatti, contrasta a parole e poi produce nei fatti.

Per restare dentro la metafora, la difficoltà di quell’alzabandiera finale è quindi dipesa dall’inclinazione del pennone. Era delle cadute è stato provato, visto, montato e sperimentato al Teatro Era dal 9 al 13 giugno e aperto al pubblico in due sole recite, il 13 e il 14 giugno. Roma non è stata costruita in un giorno, ne bastano cinque per costruire un lavoro collettivo che mirava, sono ancora parole di Bacci, “a lasciarsi cadere nelle idee e nelle sensazioni dell’altro senza perdere se stessi”? In così poco tempo si tende a pensare a se stessi e basta, come quando ci presentiamo a qualcuno che non conosciamo: siamo così concentrati sul nostro nome da prestare poca, pochissima attenzione a quello dell’altro. Nonostante quasi tutti si fossero già presentati: dal 7 al 10 febbraio 2013 al Teatro Era Scendere da cavallo li ha visti discutere fianco a fianco sul senso del fare teatro. Dopo la pausa di riflessione di un anno, Roberto Bacci li ha invitati a “risalire a cavallo” e a lavorare insieme su un tema unico, la caduta, scelto durante due incontri preparatori.

Ripiegatesi sul proprio ombelico concettuale, le nove realtà coinvolte in Era delle cadute hanno lasciato impresso soprattutto il vuoto che l’argomento comune aspirava invece a colmare. Attrezzisti gli uni degli altri, pesi e contrappesi, alzano, abbassano, spostano le quinte di uno spazio altrimenti nudo per costruire i IX quadri più prologo e raccordi, episodi che rispettano la stessa dinamica: azione / caduta, ponte per l’innesco di un nuovo ciclo di azione / caduta.

Cosa dicono? A chi? Emblematico dell’intera operazione è il IV quadro di Biancofango: Andrea Trapani e Simone Perinelli su una piccola panchina commentano una partita di calcio che non c’è, accompagnati al violoncello da Luca Tilli, seduto dietro di loro. “Si cade perché qualcuno ci rialzi.” “Se il portiere muore la partita può continuare?” La situazione non c’è, le parole nemmeno e dunque Trapani e Perinelli parlano solo perché devono, perché sono “appesi ai fili” della rappresentazione. Per loro non è importante cosa fare o dire, è importante fare o dire qualcosa per far passare il tempo. Qualsiasi cosa.

L’acrobata di Lo Sicco/Civilleri, allora, non riesce a metter su la bandiera della collettività non solo per difficoltà o condizionamenti strutturali e ambientali, ma anche per carenze sue, personali, per poca propensione alla coesione, per il fiato corto della creatività. A conclusioni simili sono arrivati pure Simone Nebbia su TeatroeCritica e Graziano Graziani sul suo blog in articoli di grande misura che fanno dialogare il site specific ideato appositamente per gli spazi del Teatro Era con la geografia di posizioni del “nuovo teatro” tracciata di recente da Renato Palazzi su Delteatro.it (Graziani tocca anche l’esperienza di Perdutamente, factory al Teatro India nell’ottobre-dicembre 2012).

Un esito inconcludente, scrive anche Andrea Porcheddu su Linkiesta con lo stile piano e franco che lo contraddistingue, ma comunque un esito, per lui che ha vissuto da vicino l’esperienza Scendere da cavallo, avendone curato il diario di bordo, una certificazione di esistenza in vita della nuova scena italiana.

Nonostante ciò, tra le inclinazioni del pennone e gli equilibrismi dell’acrobata, chi resta a terra è la bandiera, cioè il pubblico. Sgonfio, afflosciato, senza peso, ha un’unica possibilità di contare: i minuti che mancano alla fine.

Happy hour + spettacolo a casa vostra | Una piattaforma 2.0 vi spiega come

teatroxcasafoto1LAURA NOVELLI | Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto. E così, in tempi di crisi, anche il teatro si adegua e raggiunge il pubblico là dove sicuramente esso c’è: a casa sua. Sarebbe a dire negli appartamenti e nelle abitazioni private di persone che, ospitandone altre, si ritrovano ad essere spettatori senza muoversi di un passo. Iniziative di questo tipo – che per certi versi ricalcano format in voga una quarantina di anni fa e, addirittura, echeggiano quelle forme di spettacolo di corte fiorite nell’Italia rinascimentale prima che il professionismo dei comici dell’arte inventasse i teatri a pagamento – ne sono nate parecchie negli ultimi tempi. Basti citare “Stanze”, che a Milano è operativa già da tempo, o “Il teatro cerca casa”, attiva a Napoli e dintorni. Ma “Teatroxcasa” (www.teatroxcasa.com) di Raimondo Brandi, autore regista e attore con appassionata esperienza anche come reporter di viaggi, fa leva su due punti di forza innegabili: possiede un raggio di azione esteso su tutto territorio nazionale e nasce nell’alveo di quella filosofia dello sharing che, volenti o nolenti, sembra ormai essersi impossessata di numerosi aspetti della nostra vita. “L’idea di fondare Teatroxcasa – ci racconta Brandi – risale al dicembre scorso e diciamo pure che è stata dettata dalla disperazione. Lavoro in teatro da molti anni, sia da solo sia con Psicopompo Teatro di Manuela Cherubini, una compagnia che ha avuto prestigiosi riconoscimenti come il premio Ubu. A livello economico, però, siamo in una situazione disastrosa. Inoltre, mi rattrista molto dover registrare come nell’ambiente del teatro indipendente si sia sempre gli stessi; anche in sale istituzionali, il pubblico che ci segue è per lo più formato da addetti ai lavori per cui, ragionando e guardando ad esperienze degli anni ‘70, ho pensato di portare gli spettacoli nelle case, tra spettatori che siano tali per scelta e non per motivi professionali”.

Dando uno sguardo all’accuratissimo sito di questa pioneristica “piattaforma teatrale tra le case d’Italia”, si capisce bene cosa voglia dire Brandi quando parla di progetto 2.0 e di sharing: “Credo che cinque o sei anni fa un’iniziativa del genere non fosse pensabile, ma oggi che condividiamo tutto, dalla macchina alla casa per le vacanze, condividere la propria abitazione con altra gente e trasformarla per una sera in un teatro sembra normale”. Qui, inoltre, c’è piena libertà su entrambi i fronti perché non esiste una gerarchia tra i titoli “esportabili” e non c’è un direttore artistico che decide chi mandare dove. “La maggior parte delle iniziative simili a teatroxcasa funzionano come dei festival che hanno una direzione e dunque qualcuno che decide qual spettacoli siano migliori per questa o quella abitazione. Io ho rotto questo schema e ho creato un sistema economico a livello nazionale nel quale il sito funge da vetrina e luogo virtuale di scambio”. In pratica le compagnie che pensano di avere in repertorio una produzione adatta – ovviamente deve essere un lavoro molto agile, con uno o pochi interpreti e, se fuori diritti Siae, tanto meglio – si candidano mandando i materiali al sito. Poi lo stesso Brandi e Serenella Farsitano, sua socia e preziosa collaboratrice, fanno una selezione in base alla qualità e alla caratteristiche del lavoro (fino ad oggi sono arrivate oltre una quarantina di proposte e ne sono state scelte dieci, tra cui “Ragazza sola conoscerebbe uomo solo max 70 enne” di e con Carla Carucci, “Don Chisciotte in Sicilia” di e con Gaspare Balsamo, “La vita non basta” di e con lo stesso Brandi, “BIM BUM BANG” di e con Elena Vanni) e la postano con i relativi materiali informativi. A quel punto i padroni di casa interessati alla serata, scelgono il titolo che vogliono e propongono una data. Da lì parte l’organizzazione dell’evento e prende il via la macchina degli inviti, che possono essere circoscritti ad amici dei “committenti” o, come capita quasi sempre, ad altre persone incuriosite dalla proposta. “Oltre che sul sito, diamo risonanza alla serata sui vari social network e per ora la cosa funziona molto bene. Di solito uno spettacolo a domicilio, compatibilmente con le caratteristiche del luogo (l’ideale sarebbe avere un terrazzo spazioso o un giardino), prevede la partecipazione di quaranta/quarantacinque spettatori, partendo da un minimo di venticinque. Mediamente, su una quarantina di presenze, quindici provengono da prenotazioni on-line e c’è anche chi segue il progetto peregrinando di casa in casa”. Ma quanto può fruttare economicamente una serata-tipo? “Chiediamo una sorta di sottoscrizione volontaria di dieci euro a persona e l’incasso va alla compagnia, fatte salve la spese Siae (se ci sono), una piccola quota che spetta all’associazione e un’altra quota che va al padrone di casa per comprare vino e aperitivi”. Siamo, dunque, di fronte a un nuovo modo di pensare e fruire il teatro? Non ci sarebbe da stupirsene troppo visto che esso, tanto più nel Novecento, ha mostrato chiari (e fecondi) segnali di inquietudine rispetto alla sacralità dello spazio: spettacoli di strada, happening, incursioni nei grandi magazzini, nei vagoni della metropolitana, nelle università, persino in luoghi nevralgici della politica hanno riempito le pagine della migliore avanguardia. “Paradossalmente, però, il pubblico sembra più pronto dei teatranti a questo cambiamento. Ho notato maggiore resistenza da parte dei miei colleghi che da parte dei padroni di casa. E non capisco questo scetticismo visto che ormai ci muoviamo su un terreno già bello frantumato: gli impresari non esistono più, nessuno investe negli spettacoli, si fa fatica a girare, più di un monologo o di una pièce a due personaggi non ce lo possiamo permettere”.

Un ultimo sguardo al sito: venerdì 27 giugno, in una casa di Aprilia Nord (Latina), andrà in scena “Pepe” di e con Laura Riccioli. Brandi ci tiene però a raccontarmi che sono state già prenotate alcune serate di settembre, che per i prossimi mesi si prevede un incremento dell’attività e delle aree coinvolte. “Fino ad oggi il progetto è andato molto bene, soprattutto a Roma. Ci siamo mossi anche a Milano e dintorni, a Napoli, in Piemonte. La differenza la fa sicuramente il padrone di casa. E’ una figura fondamentale perché molto dipende da come lui organizza e vive l’evento”. E, ça va sans dire, in questo gioca anche l’appartenenza geografica e “gastronomica” del committente : “A Napoli gli aperitivi si trasformano sempre in vere e proprie cene a base di mozzarella di bufala e quant’altro. A Roma c’è molto spirito di accoglienza. A Milano tanto alcool e tartine”.

Ranuncoli#12 Quattro amori, un funerale e Nessuno im Garten

Monastero_di_Moldovita_parete_ovest_assedio_di_Costantinopoli_500x333COSIMA PAGANINI | Milano: Winter is Gone e sono finite anche la quarta stagione di Games of Thrones e la seconda stagione di Orphan Black, così decido di uscire. Ma di sera piove e mi rifugio in una sala…

Ha visto tanto bel cinema: Sokurov, Tarkovskij, Malik, Straub e Huillet, Visconti; ha sentito tanta musica, bella (Arvo Pärt, Anton Bruckner); conosce attori, qualcuno bravo; conosce musicisti, qualcuno bravo, e decide di fare un film anche lei. E fa un film brutto. Noioso. Con attori che si rivelano inadatti, con della musica che commenta e sottolinea il nulla. Peccato, perché questa ex ragazza ha delle ottime frequentazioni. Forse troppo. E mi torna in mente il verso di Rilke:perché la bellezza non è che il tremendo al suo inizio e comincio a pensare che troppa bellezza faccia male. Non tutti la possono reggere. Non Elisabetta Sgarbi con i suoi Racconti d’amore.

Invece Giada Colagrande regge benissimo la bellezza che Bob Wilson, chiamato da Marina Abramović, ci ha mostrato in The Life and Death of Marina Abramović. Anche questo è un film sulla vita e la morte. Tutto costruito e tutto autentico. Marina Abramović, per le sue musiche, non ha voluto un musicista (pop) in odore di misticismo, ma un musicista (pop) transgender, così si definisce Antony Hegarty. Bob Wilson ha creato un mondo su misura per Marina Abramović. Un mondo che scorre parallelo a quello in cui siamo immersi. Non ha finto una natura ma ne ha inventata una inedita e viva. Ha chiamato attori e musicisti e non gli ha messo la maschera del quotidiano nell’illusione preraffaellita di una realtà più reale: non c’è niente di più falso di una maschera di verità. Promuovo Willem Dafoe con la faccia da Joker in The Life and Death of Marina Abramović; boccio Sabrina Colle, Laura Morante e Michela Cescon (di solito brava) con le facce senza trucco in Racconti d’amore.

Ho anche visto uno ‘studio’ di uno spettacolo il cui programma di sala dice che è ispirato a La strada di Cormac McCarthy, all’Angelus Novus di Walter Benjamin e all’uragano Katrina. E tutto in 35 minuti. Vi racconto lo spettacolo: dietro una quarta parete fatta da una tenda del tipo ‘veneziana’, come quella di 9 settimane e mezzo, vediamo un uomo in uno scafandro/tuta spaziale e, in una scena successiva, un bambino, anche lui con la tuta spaziale. Nonostante le macerie, il vento cosmico, le luci intermittenti, i suoni apocalittici e la piantina sopravvissuta, quello che mi è venuto in mente è stata la scena di Ritorno al futuro nella quale Marty McFly (Michael J. Fox) si traveste da extraterrestre e minaccia il suo futuro padre. Non ho visto nessun angelo sterminatore (nemmeno quello di Legion). Il primo studio di questo lavoro è del 2011 e lo spettacolo sarà presentato, in forma definitiva, a Novembre 2014; potrò ancora dare un consiglio agli autori? rimettetevi a studiare e dimenticate le cose che sapete. So però che non mi ascolteranno e faranno benissimo perché gli spettacoli passano mentre i programmi di sala restano e gli spettatori, più educati di me, leggeranno e conserveranno un bellissimo programma di sala di IamhereIhaveagun (I am Here I have a Gun).

Per sfuggire alla pioggia mi sono rifugiata in un altro teatro: in scena un attore bravo, ma anche regista e adattatore di grandi romanzi, alle prese con uno (nessuno) e centomila. Questo però lo so dal titolo perché dopo 30 minuti dormivo e mi sono persa qualche migliaio di personaggi. È tempo di andare in vacanza.

Le OFFicine di Dominio Pubblico – Ultima puntata (…e siamo tutti don Chisciotte)

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Fotografia di Manuela Giusto

SILVIA TORANI | Ci tenevo ad assistere agli studi della serata conclusiva della rassegna OFFicine di Dominio Pubblico perché leggendone il programma avevo l’impressione che emergesse qualcosa dalla selezione proposta, una tendenza, un divisore comune. Non mi sbagliavo: BERLINISNTU (Berlin isn’t U) di Fattoria Vittadini, Gioco di specchi di Uthopia/Tra Cielo e Terra, PASSI_una confessione del duo Bartolini/Baronio e Don Chisciotte amore mio di Angelo Tronca sono tutti in un modo o nell’altro declinazioni della stessa figura. Non solo i due studi in cui se ne fa esplicito riferimento, ma tutti collocano al proprio centro l’archetipo dell’uomo moderno, l’ideatore dei propri mondi, un don Chisciotte che non rischia mai nulla perché il pericolo, se c’è, è solo mentale.

In BERLINISNTU tre giovani erranti, esponenti della numerosa compagnia milanese di danzatori Fattoria Vittadini, sono alla ricerca di un qualcosa che deve ancora manifestarsi, che soddisfi la mancanza come condizione esistenziale. Allora fuggono e si cercano a Berlino: un viaggio che prova, come don Chisciotte, a sostituire il Sé all’Altro. Ma l’Altro non si lascia ridurre, perché dopotutto Berlin isn’t you.

Purtroppo anche lo studio sembra ancora lontano dal trovare se stesso. Un interessante lavoro sul freeze, che va dal prologo scenografico di diapositive proiettate, alla coreografia che si addensa da una posa all’altra, fino alle luci stroboscopiche che fissano lo scorrere del tempo, si perde in un delirio orgiastico che sembra non prevedere sbocchi. Così più che il nucleo di uno spettacolo potenziale il lavoro assume l’aspetto di un training schizofrenico.

Gioco di specchi, scritto dal brillante Stefano Massini, è senza dubbio lo studio dalla drammaturgia più costruita: un dialogo bilanciato tra momenti di massima tensione e allentamento che racconta la piccolezza dell’umano impegnato a fronteggiare la certezza della morte. Gli attori Ciro Masella e Marco Brinzi vestono bene i panni di un don Chisciotte che non si rassegna e un Sancho Panza che è la sua controparte concreta e razionale. Destati in piena notte da un doppio sogno che vorrebbe uno dei due morto all’alba, potrebbero verificare in ogni momento la fondatezza del presagio ma gliene manca sempre il coraggio. La realtà non è ciò che vedono gli occhi, ma ciò che pensa la mente. Allora restano al buio cercando di beffare la morte con i loro ragionamenti. Ma appena un pericolo sembra scampato, ecco che se ne presenta un altro imprevisto e ancora più temibile.

Un suono come di grilli elettronici riempie le pause di sgomento e avvolge gli occhi degli spettatori trasformando il buio teatrale in tenebre notturne. Il pubblico resta agganciato e nonostante lo studio sia in sé conchiuso e autosufficiente rimane la curiosità del “come andrà a finire”. E, da quello che ci dice Ciro Masella tra un lavoro e l’altro, sembra dovremmo aspettarci grandi cose. Il progetto, in una fase produttiva molto più avanzata rispetto agli altri, è già definito e pronto per il lancio: forse anche per questo non è risultato vincitore, ma comunque speriamo di vederlo, magari proprio all’interno della prossima stagione di Dominio Pubblico.

La giuria ha invece premiato il terzo studio della serata, PASSI_una confessione di Bartolini/Baronio, del resto già dichiarato vincitore dall’entusiastica reazione del pubblico in sala. Si tratta del più intenso dei quattro lavori: la costrizione fisica di una corda fissata al soffitto, cui l’attrice/autrice Tamara Bartolini si fa trovare appesa al rientro dall’intervallo, ha contribuito a un’interpretazione di grande potenza espressiva. Alternativamente sostegno, guinzaglio e altalena, questa invenzione scenografica semplice ma efficace caratterizza un panorama mentale ossessivo e visionario.

Alle prese con un trauma irrisolto, in una sorta di seduta psicanalitica post mortem, l’artista indaga l’ontologia dell’insicurezza postmoderna alla continua ricerca di approvazione. Il piede greco, rinascimentale attributo di bellezza divina, diventa un piede di scimmia, una vergogna da nascondere allo sguardo inquisitorio della società dei media. Perciò continua a chiederci: “Ti piace? Va bene così? E così?”. Ancora una volta è la mente a costruirsi i propri mulini a vento e a combatterli senza possibilità di vittoria. Una performance ispirata che grazie a questa vittoria potrà svilupparsi in uno spettacolo sulla morte come “curva della strada”.

L’ultimo studio, il Don Chisciotte amore mio di Angelo Tronca, è forse quello che più si avvicina all’essenza stupidamente indomita dello spirito donchisciottesco, ma resta anche il più sconclusionato. Un one man show tra il demenziale e il geek con trovate comiche da villaggio turistico ed espedienti ingegnosi come un ombrello che fa piovere. Manca un progetto organico, una struttura portante; tutto appare estemporaneo.

Eppure c’è qualcosa di poetico ed eroico nell’attore che suona il suo ukulele e canta quasi a bassa voce la sigla di Goldrake. “Il tentativo è già una vittoria” recita il programma di sala. “Perché ad essere Superman sono tutti bravi: andare avanti senz’altro scudo se non la propria volontà; questo è il vero atto eroico”. E questa sembra essere l’ultima forma di eroismo concessa al nostro tempo.