MATTEO BRIGHENTI | L’uomo è la voce del racconto. Dante è i nostri occhi, le nostre orecchie, i nostri passi. Noi vediamo, sentiamo, attraversiamo il Paradiso della donna di Lenz Fondazione perché lo vede, lo sente, lo attraversa lui per noi. Con noi. Il “pellegrino assoluto” insegue, desidera, vuole Beatrice, al pari di un Orlando la sua Angelica.
Questo cercare continuo è amore. Amore che costruisce, già nel suo palpitare, la realtà che sogna di vivere: il cammino fa il viaggio. E la visione fa lo spazio, nel vuoto immenso del Ponte Nord di Parma.
Non è un caso se Lenz ha affrontato l’Orlando Furioso e percorre adesso la Divina Commedia: è pratica artistica, faticosa e cosciente, che si nutre di quell’amore ‘creativo’ e si specchia in quella ricerca di ‘universale’ umano e inarrestabile (sei le nuove produzioni all’anno).
Dante e Orlando s’incontrano nello stesso desiderio. E nel medesimo interprete. Francesco Pititto (drammaturgia, imagoturgia) e Maria Federica Maestri (installazione site-specific, costumi, regia) correggono la scelta infelice di Fabrizio Croci nel precedente Purgatorio e scelgono per Paradiso. Un Pezzo Sacro di affidare il Sommo Poeta a Paolo Maccini, storico attore ‘sensibile’ della compagnia parmense.
Il suo volto, placido e stralunato, la sua presenza e determinazione quasi impassibile, sono il ritratto vivente di quella particolare sensibilità oltre l’intelletto di cui parlano Pititto e Maestri nei materiali preparatori dello spettacolo: uno stato sovrasensibile e misterioso, nella sua estrema debolezza, in grado di guidarci nella salita al Paradiso.
Dove meno ce lo aspetteremmo, nel ‘vorrei, ma non posso’ della politica (locale) italiana, in “uno sterile investimento di spesa pubblica”, come lo definisce Tania Bedogni su PAC, a cui rimandiamo per il dettaglio dell’analisi compositiva.
Il Ponte Nord sembra un grattacielo nano, spalmato in orizzontale, ponte soltanto perché si distende tra due sponde. Dal 2012 non è mai stato aperto alla cittadinanza, eccetto che l’anno scorso per una cena di Forza Italia.
È significativo, allora, che la prima azione che Lenz invita a fare è camminare, cioè riprendersi la libertà prima delegata e poi tradita, primo passo nel processo di riappropriazione collettiva dello spazio. Pur nell’altezza poetica di e dello studio su Dante e i Quattro Pezzi Sacri di Giuseppe Verdi, ciò che impressiona è la sfida vinta, stravinta, di fare di questo luogo, che ha ancora i cartelli di pericolo alle ringhiere, quasi un crocevia di arte pubblica.
Paradiso è un’installazione vivente, il visitatore/spettatore recupera la mobilità e la varietà di sguardo e punto vista proprie dei grandi ‘attraversamenti’ lenziani e che, invece, erano mancate nel Purgatorio. L’estetica è un avvenirismo arcaico (sacchi a pelo, gonne larghe, fasce mandibolari, bende), il bianco tanto latteo quanto ospedaliero dei 20 performer e delle 30 coriste dell’Associazione Cori Parmensi, dirette da Gabriella Corsaro, è sfumato, venato, screziato dell’oscurità dell’ambiente, resa più acuta dall’illuminazione diffusa che la penetra, eppure non dirada. Anche nella nettezza dei contorni che il Paradiso richiama, Lenz riesce a trovare lo scarto, la vena chiusa, l’ombra: non c’è pace nel loro universo, né pacificazione possibile.
Le donne di questo Paradiso al femminile escono come da bozzoli neri, incinte. I sacchi, una volta sfilati dalla testa, paiono veli da sposa a lutto. Il marito forse è scomparso, sicuramente è assente. Non meno del parto: nell’attesa Maria (Delfina Rivieri) è invecchiata e il figlio le è rimasto in grembo. Mai nato lui, mai diventata madre lei. E nessuna di loro.
Così, Francesco Pititto e Maria Federica Maestri portano in scena l’elemento primordiale all’origine della vita, l’acqua, come abbiamo visto ne Il desiderio segreto dei fossili di Maniaci d’Amore. Dante, peraltro, paragona la descrizione del Paradiso a un viaggio per mare e alcune apparizioni a riflessi nell’acqua.
Le acque erompono, però non si rompono. Lo scroscio opprimente e ossessivo (drammaturgia musicale di Andrea Azzali) e le gocce che cadono dal soffitto di placente-amache al secondo piano sono solo elementi narrativi dell’ascesa dantesca. Le sante, difatti, per essere udite devono avvicinarsi al microfono di Maccini, al pari dei personaggi shakespeariani con Armando Punzo in Dopo la tempesta.
Per questo parliamo di una prospettiva non consolatoria, né pacificata: il mutamento, il cambiamento, avvengono per Dante, per noi. Per chi passa, ma non per chi resta. Non per il posto in cui ci troviamo.
Alla fine, il Sommo Poeta dice di buttarsi nella luce: intorno è buio. Il tutto è nulla, dal momento che l’uso del Ponte Nord è fermo da quando è stato costruito. Uno spettacolo non fa primavera, pare voglia far passare sottotraccia Lenz. Questo ventre di vetro e acciaio darà i suoi frutti quando nello spazio tornerà a scorrere il tempo. Cioè, le decisioni. La politica.